UN CARO INVITO ALLA LETTURA
Giuseppe Ghiberti *
Un giorno don Paolo ha ricevuto dal suo vescovo l'incarico (allora si diceva "l'ubbidienza") di andare
a prendersi cura di alcune piccole comunità che vivevano in Alta Val di Susa, in una delle valli che
si dipartono da Cesana. Veniva a succedere ad alcuni parroci che avevano trascorso decine di anni
in quei paesi, ma ora la scarsità di preti obbligava a concentrare gli incarichi. D'altra parte anche la
popolazione residenziale non è in crescita; c'è però un nucleo sempre più consistente di residenti estivi
che sfrutta in quei mesi il servizio religioso e la presenza del prete. In questa situazione il prete che
cosa può fare?
Don Paolo Molteni è figlio della sua terra valsusina, ma ha percorso un lungo cammino, perché la sua
preparazione l'ha attinta in luoghi prestigiosi, italiani (a cominciare dal suo seminario, piccolo ma
glorioso anch'esso) ed esteri, e ha avuto come maestro – a Bonn, in Germania - quel professore Joseph
Ratzinger che sarebbe diventato il nostro amato Papa Emerito Benedetto XVI. La sua preparazione
teologica l'ha messa a disposizione di molti studenti, negli anni in cui la rinata facoltà teologica di
Torino ebbe sede in Rivoli, all'imboccatura della Val di Susa (e lì ho ricevuto il dono della sua amicizia).
Ritornare a tempo pienissimo nel ministero pastorale, con incarichi a centro diocesi e soprattutto nelle
parrocchie, non gli è stato duro e tutti l'hanno sentito, senza limiti, amico fraterno.
Don Paolo è la discrezione in persona. Vuole che il suo annuncio sia rispettoso e non invasivo e ha
pensato di usare, accanto ai mezzi tradizionali dell'annuncio, nella liturgia e nel bollettino, la formula
dei "daze" (che è un'abbreviazione scherzosa e differenziante del "dazebao", di qualche decennio fa).
Ora, mentre la loro stagione sembra chiusa, sarebbe un vero guaio lasciarli cadere nel dimenticatoio,
perché sono inviti alla vita, e hanno ancora molto da insegnarci. Ricordi che diventano presenza, come
ci accade di renderci conto man mano che procede la lettura. Hanno uno stile essenziale, centrato su
un messaggio fondamentale, accompagnato da brevi indicazioni di iniziative parrocchiali.
I contenuti dell'annuncio di questi daze sono una scommessa e anche un po' una provocazione. Essi
osano evidenziare, addirittura esaltare, le piccole cose: la vita di tutti i giorni, le ricorrenze che
rischiano di essere disattese, le feste dei piccoli, la presenza dei morti, l'importanza di luoghi che
hanno diritto al nostro interesse affettuoso; sono la dimostrazione che la vita non è morta quaggiù e
che tutto merita di esser consegnato alla memoria.
"Memoria" è la grande parola – e ben più che semplice parola. La nostra memoria è corta e non riesce
a ricuperare quel che non è più: c'è solo più nella mente e poi scompare anche di lì. La sensibilità
ebraica aveva invece una concezione più ricca, nella convinzione che la memoria - almeno nei rapporti
con Dio – producesse sempre una certa presenza dell'evento o della persona di cui si fa memoria. Gesù
esaltò in maniera unica l'efficacia della memoria, quando chiese agli apostoli e a tutti i futuri discepoli
"fate questo in memoria di me". Aveva appena pronunciato la parola inaudita che chiamava il pane suo
"corpo" e il vino suo "sangue" e voleva che quello non rimanesse un atto unico ma che venisse ripetuto
"in mia memoria" (Lc 22,19 e 1 Co 11,24-25). "Fare memoria - leggiamo in un daze - è più che ricordare.
E' mettersi in comunicazione con il Cristo risorto e vivo, Signore del tempo e della storia.
L'attesa della gloria allora è piena di speranza". A questa memoria tanto efficace si collegano altre
memorie meno significative, certo, eppure portatrici pur esse di una certa densità di presenza, che
assicura una efficacia di familiarità e di servizio a ciò che continua a essere presente. Ne può nascere
addirittura una "spiritualità della memoria".
Don Paolo si è impegnato allo spasimo in questo servizio alla memoria. Un incendio di cinquant’
anni fa aveva distrutto una delle sue parrocchie, Sauze di Cesana, e inclemenza del tempo abbinata
all’incuria degli uomini avevano ridotto molto male quel gioiello di San Restituto, isolato sul pendio
del monte, circondato solo dalle tombe del cimitero. La tenacia del pastore, che non si dava per vinto
dal trascorrere degli anni e dalle difficoltà sempre più grandi a far riconoscere accanto alle esigenze
elementari evidenziate dalla crisi la necessità primaria di non perdere valori pur essi vitali, ottenne il
ritorno alla vita di quelle strutture. Restaurate le pietre, anche le tombe hanno ripreso a dialogare con
il vissuto di quanti accolgono l’invito ad affacciarsi a quella storia.
Non si deve pensare che il libro che abbiamo tra mano sia a servizio di un nostalgico "amarcord"; lo si
deve invece classificare nella categoria quasi di una confessione, che non vuole essere un bilancio ma
certo si presta per un richiamo di tante tappe d'un cammino appassionante. Il cammino di un "Wanderer",
di uno che non è vagabondo, neppure solo viandante, ma pellegrino, che apprezza il cammino perché
lo porta fuori di sé, alla meta agognata: egli vorrebbe partecipare agli amici questa condizione. Ed
è testimonianza della gioia: "Vedete – dice don Paolo – se ci può essere situazione migliore di questa".
Senza nostalgia egli pensa al senso degli anni del suo lavoro e ritiene che ora, in quella che potrebbe
essere "l'ultima fase della mia vita, che risulta essere la più bella", gli è possibile dire: "La mia presenza
dunque qui non è vana".
Si potrebbe forse classificare questo genere di comunicazione graficamente tra gli esemplari dell'arte
povera, ma l'assenza della ricercatezza è forse un aiuto a non fermarsi al secondario, per individuare
il nucleo di un messaggio affidato a testi di diversa lunghezza. Siamo riconoscenti alla professoressa
Maria Clotilde Merlin Massaiu per il paziente lavoro di elucidazione e commento con cui ha arricchito
l'opera di don Paolo, ricorrendo il più possibile ai suoi stessi scritti, ma poi anche a opere di noti scrittori
e a documenti della diocesi e dei vescovi, in particolare l'amato mons. Bernardetto e l’indimenticabile
Can. Natalino Bartolomasi.
Ci accommiatiamo da quest'opera con molti messaggi, suggeriti ed evidenziati nei vari momenti della
vita parrocchiale: un'opera tanto appassionata, libera, cristallina, che dalle piccole cose prende l'impulso
per slanci suggestivi, che spaziano dal tema della "via pulchritudinis" alla nostalgia della santità,
al programma di una vita "insieme", che sola può garantire un'esistenza aperta al mistero, nella conoscenza
e nell'amore di Cristo. Non ci stupisce una confidenza dell'Autore, che sommessamente ci rivela:
"Hai nelle mani il mio testamento spirituale".
* Sacerdote dell’Archidiocesi di Torino
da sempre magister di scienze bibliche
studioso e devoto della Sindone